Il datore di lavoro può licenziare un proprio dipendente per scarso rendimento? La risposta è positiva, a patto che – sancisce la sentenza n. 13817/2016 della Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, sia stato dimostrato lo standard produttivo inizialmente concordato e, di conseguenza, siano emersi in misura oggettiva i gap di rendimento rispetto ad essi.
La sentenza n. 13817/2016
Nella sentenza in esame, si ricostruisce il fatto che ha condotto poi i giudici della Suprema Corte a un simile pronunciamento. In primo grado, infatti, il giudice aveva dichiarato illegittimo il licenziamento disposto da una società nei confronti del direttore di una filiale, condannandola a riassumere il dipendente o a pagargli un’indennità pari a cinque mensilità dell’ultima retribuzione. In secondo grado, la Corte territorialmente competente ha confermato la declaratoria di illegittimità del licenziamento, condannando così la società a reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro, con conseguente corresponsione delle retribuzioni alla data del recesso, fino a quella della reintegra.
Dinanzi a tale sentenza, il datore di lavoro ha poi proposto ricorso in Cassazione.
La decisione della Corte di Cassazione
Esaminando tale controversia, la Corte ha ricordato innanzitutto come il datore di lavoro che provvede a licenziare per scarso rendimento il lavoratore, deve dimostrare non solamente il mancato conseguimento del risultato o la sua esigibilità, quanto anche deve provare che la causa di esso deriva dall’inadempimento degli obblighi contrattuali da parte del dipendente. In particolare, nella fattispecie in esame, la società ricorrente non ha specificato quale fosse lo standard produttivo atteso e concordato con il dipendente, e non ha provato nemmeno quale fosse il grado di efficienza dei colleghi dello stesso. Il datore di lavoro non ha inoltre nemmeno dimostrato che la contrazione delle vendite fosse imputabile alla violazione degli obblighi contrattuali da parte del dipendente, e non ha nemmeno dato prova della crisi aziendale, della flessione delle vendite o dell’incremento dei costi gestionali.
Insomma, alla luce di quanto sopra, i giudici della Corte di Cassazione ritengono che la Corte di merito aveva ritenuto correttamente di escludere la sussistenza dei motivi alla base del licenziamento, e hanno inoltre sottolineato che è stato possibile evincere che la sede presso cui lavorava il dipendente era un’unità aziendale priva di autonomia strutturale e funzionale, non avendo una propria contabilità e autonomia, ma dipendendo dalla sede centrale.
Con ciò escludeva che le unità assegnate alla filiale potessero essere sommate a quelle operanti presso la sede centrale. Dinanzi a tale valutazione il datore di lavoro aveva già contestato tale ponderazione, con contestazione però respinta dalla Suprema Corte, che ha ritenuto queste argomentazioni come inammissibili, atteso che è denunciabile in Cassazione solamente l’anomalia motivazionale che attiene alla motivazione in sé, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali.