La sentenza della Corte d’appello e il ricorso in Cassazione da parte dell’INPS
La Corte d'appello, in particolare, in riforma della decisione di primo grado, aveva accolto la domanda di quest’ultimo nei confronti dell’INPS, in veste di gestore del Fondo di garanzia per il trattamento di fine rapporto, condannando l'Istituto al pagamento del t.f.r. a seguito di insolvenza del datore di lavoro.
Il lavoratore aveva come già detto, infruttuosamente esperito una procedura di esecuzione ed aveva altresì proposto istanza per la dichiarazione di fallimento del datore di lavoro, che era stata rigettata per la modesta entità del debito.
La Corte di appello riteneva che il datore di lavoro, assoggettabile a fallimento ma non dichiarato fallito per la esiguità del credito azionato, doveva essere in concreto considerato non soggetto a fallimento e, pertanto, operava la disposizione che consente al creditore di richiedere il t.f.r. al Fondo di garanzia, quando ricorra l'altro requisito, costituito dall'infruttuoso esperimento della procedura di esecuzione.
Contro la sentenza della Corte d’appello proponeva ricorso per cassazione l’INPS, sostenendo che erroneamente la sentenza aveva accolto la domanda del lavoratore sulla base dell'esito infruttuoso di una procedura esecutiva, senza che ricorresse l'ulteriore requisito dell'accertamento e della declaratoria dello stato di insolvenza, con conseguente dichiarazione di fallimento.
Cosa sosteneva l’Istituto previdenziale e il rigetto della Cassazione
In sostanza, secondo l’Istituto previdenziale, la Corte di appello avrebbe erroneamente interpretato la normativa in questione, con una decisione ispirata da considerazioni equitative, ma inconciliabile con il mancato accertamento dello stato di insolvenza dell'imprenditore ed erroneamente fondata sul rilievo che l'imprenditore non dichiarato fallito per la esiguità del credito azionato doveva essere in concreto considerato non soggetto a fallimento.
La Cassazione ha, però, respinto il ricorso dell’INPS, in particolare ricordando che la legge (l. n. 297 del 1982, art. 2, comma 5), prevede il pagamento del t.f.r. da parte dell'INPS qualora il datore di lavoro, non soggetto a fallimento, non adempia, in caso di risoluzione del rapporto di lavoro, a detto pagamento, sempreché il lavoratore abbia infruttuosamente esperito l'esecuzione forzata per la realizzazione del credito.
Quando l’esecuzione forzata risulti infruttuosa sarebbe possibile agire nei confronti del Fondo di Garanzia
Una lettura della legge nazionale orientata nel senso voluto dalla direttiva CE n. 987 del 1980 consente, secondo una ragionevole interpretazione, l'ingresso ad un'azione nei confronti del Fondo di garanzia, quando l'imprenditore non sia in concreto assoggettato al fallimento e l'esecuzione forzata si riveli infruttuosa.
L'espressione "non soggetto alle disposizioni del R.D. n. 267 del 1942" va quindi interpretata, per la S.C., nel senso che l'azione della citata legge trova ingresso quante volte il datore di lavoro non sia assoggettato a fallimento, vuoi per le sue condizioni soggettive vuoi per ragioni ostative di carattere oggettivo. Stando, quindi, al principio di cui sopra, la Cassazione ha ritenuto che la decisione impugnata avesse correttamente riconosciuto il diritto di ottenere la tutela del Fondo di garanzia, essendo pacifico che il lavoratore aveva vanamente proposto l'azione esecutiva.
Ed invero, secondo l’interpretazione offerta dalla Suprema Corte di Cassazione, qualora il datore di lavoro sia insolvente, ma non soggetto a fallimento, il lavoratore può conseguire le prestazioni del Fondo di garanzia dall’INPS, previo infruttuoso esperimento della procedura di esecuzione.