La liberazione dai debiti non può essere in alcun modo legittimata da un comportamento che ritardi la procedura. Cassazione civile , sez. I, sentenza 23.05.2011 n° 11279
Due coniugi, soci di una società di fatto, fallita, presentano un’istanza al Tribunale richiedendo la liberazione dai debiti residui nei confronti dei debitori non soddisfatti, ai sensi dell’art. 142 l.f. La domanda viene rigettata in quanto il giudice ritiene che il comportamento degli istanti sia destinato a ritardare la procedura concorsuale. Viene, dunque, presentato il reclamo in appello e poi il ricorso in cassazione.
Secondo chi ricorre, le condotte che i giudici di merito definiscono ostative, sono operazioni legittime. Si tratterebbe di una strategia lecita, volta a salvare l’impresa. Si sottolinea che la sentenza di patteggiamento per bancarotta fraudolenta emanata contro di loro, ex art. 651 e segg. c.p.p. non fa stato nei giudizi civili e amministrativi, di conseguenza, si contesta il fatto che il giudice vi abbia dato, invece, rilievo.
La Cassazione, respinge il ricorso e risponde che: il fallito può essere ammesso al beneficio della liberazione dai debiti residui verso i creditori non soddisfatti, solo se non ha ritardato o contribuito a ritardare la procedura. Il verbo “ritardare” secondo la Suprema Corte, equivarrebbe ad “ostacolare”. Dunque tutte le azioni condotte in tal senso contrasterebbero il principio di ragionevole durata del processo.
Si aggiunge, inoltre, che l’espressione “in alcun modo” fa riferimento ad ogni condotta o azione che abbia contribuito al ritardo, incluse le azione giudiziarie pretestuose. I coniugi avevano instaurato un procedimento che era stato dichiarato inammissibile e avevano contestato il rendiconto del curatore, poi abbandonando la causa in relazione.
Tra le condotte definite ostative ex l.f., secondo il giudice, rientravano anche quegli atti di disposizione del patrimonio che i coniugi avevano posto in essere, consapevoli della crisi irreversibile, a favore del proprio figlio.