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Fallimento imprenditore agricolo: assoggettabilità rimane discrezionale


Come noto, anche alla luce del “nuovo” art. 2135 c.c., l’imprenditore agricolo non può essere assimilabile alla figura di imprenditore commerciale. Tuttavia, questo non vuol dire che, ex ante, si possa scongiurare la sua assoggettabilità alle procedure fallimentari. A ribadirlo è stata una recente pronuncia del Tribunale di Rovigo – sez. fallimentare, che con la pronuncia del 20 settembre scorso ha rigettato il ricorso per promuovere la dichiarazione di fallimento, proposta da un istituto di credito nei confronti di una società agricola, sulla base della supposizione che essa svolgesse invece una prevalente attività commerciale (cosa che, sostanzialmente, avrebbe ricondotto la società agricola a poter essere assimilabile a un’impresa commerciale e, dunque, sottoposta a quanto previsto dalla Legge Fallimentare).

Cosa prevede la Legge Fallimentare

All’art. 1 del R.D. del 16 marzo 1942, n. 267 (c.d. Legge Fallimentare) viene stabilito che “sono soggetti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori che esercitano una attività commerciale, esclusi gli enti pubblici”. Una definizione apparentemente molto stringente e che, altrettanto apparentemente, escluderebbe in toto gli imprenditori agricoli.

In realtà, con il passare degli anni il legislatore e il giudice hanno ampliato la formale e sostanziale definizione di imprenditore agricolo, rendendo molto più sottile il confine che separa costui dall’imprenditore commerciale. Si tenga ad esempio conto che, sulla base dell’art. 2135 c.c., come modificato dall’art. 1 del d.lgs. 18 maggio 2001, n. 228, è imprenditore agricolo “chi esercita una delle seguenti attività: coltivazione del fondo, selvicoltura, allevamento di animali e attività connesse” chiarendo subito, al comma 2, che “per coltivazione del fondo, per selvicoltura e per allevamento di animali si intendono le attività dirette alla cura e allo sviluppo di un ciclo biologico o di una fase necessaria del ciclo stesso, di carattere vegetale o animale, che utilizzano o possono utilizzare il fondo, il bosco o le acque dolci, salmastre o marine”.

Per quanto concerne le attività connesse, il comma 3 stabilisce che per esse si intendono quelle “esercitate dal medesimo imprenditore agricolo, dirette alla manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione che abbiano ad oggetto prodotti ottenuti prevalentemente dalla coltivazione del fondo o del bosco o dall'allevamento di animali, nonché le attività dirette alla fornitura di beni o servizi mediante l'utilizzazione prevalente di attrezzature o risorse dell'azienda normalmente impiegate nell'attività agricola esercitata, ivi comprese le attività di valorizzazione del territorio e del patrimonio rurale e forestale, ovvero di ricezione ed ospitalità come definite dalla legge”.

Nuovi criteri per stabilire l’assoggettabilità al fallimento

In altri termini, con l’allargamento della definizione di imprenditore agricolo, e con le pronunce che si son fatte via via “flessibili” in tal senso, il collegamento con la terra e con i rischi connessi all’attività agricola che derivano dalle stagioni non possono più esser considerati quali criteri qualificanti per la figura di imprenditore agricolo, entrando invece in gioco il collegamento con il ciclo biologico, e il legame con il fondo, inteso in senso lato.

Con la sentenza del Tribunale di Rovigo, richiamando alcune sentenze della Corte di Appello di Torino, si ricorda inoltre che non vi sarebbe rilievo ne “la dimensione della impresa o le modalità di organizzazione della stessa né l’eventuale svolgimento di attività connesse – in quanto tali non principali, ma accessorie alla attività agricola”.

In conclusione, pertanto, l’assoggettabilità o meno, alla procedura fallimentare dell’imprenditore agricolo, rimane discrezionale alla concreta verifica dell’attività svolta.


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