Le polemiche su come la proposta sia passata sono sepolte e oggi anche in Italia si parla ufficialmente di class action, ovvero le azioni collettive a tutela di una classe intera.
Dal 1 Gennaio 2010 entra infatti definitivamente in vigore la Legge Sviluppo per i consumatori e gli utenti, punto finale di un lungo iter i cui primi interventi risalgono al 2007. Anche se la legge è entrata in vigore solo da qualche giorno, le iniziative, effettivamente intentate o per il momento solo minacciate, che si appellano a questo strumento sono già più di una, segno che si tratti di una riforma importante e voluta.
Ma ci sono degli aspetti ulteriori che vanno considerati, per poter avere un quadro completo e obiettivo delle reali potenzialità dello strumento nel nostro ordinamento e nei tribunali italiani.
Negli Stati Uniti la class action, da anni fortemente utilizzata soprattutto nelle cause in campo finanziario, si lega indissolubilmente al concetto di “enforcement”, un concetto che non trova in Italia una traduzione che ne includa tutti gli aspetti e che approssimativamente corrisponde alla nostra idea di giustizia civile e applicazione della legge. Questo a dimostrazione del fatto, che uno stesso istituto trapiantato, assume comunque inevitabilmente delle sfumature diverse in società, culture e ordinamenti contraddistinti.
Vediamo quindi cosa cambierà in concreto nei tribunali italiani dopo l’introduzione della class action.
Prima di tutto va, in ogni caso, valutata l’ammissibilità delle azioni collettive: elemento non di poco conto se si considera che in Italia manca il concetto di “danno punitivo” prettamente americano. Sarà quindi il giudice a dover, caso per caso, valutare l’adeguatezza di chi ha instaurato il giudizio, a rappresentare l’interesse in oggetto, in nome di tutti coloro che rientrano nella stessa classe di consumatore e/o utente. Qualora la causa venga ritenuta ammissibile questa comporta necessariamente uno specifico, approfondito, e non breve, accertamento del danno subìto.
Infine va anche notato che, dopo l’abolizione del “patto in quota lite”, gli avvocati in Italia, rispetto ai colleghi americani, avranno sicuramente uno stimolo in meno all’assunzione di incarichi di azioni collettive potendo ricevere il compenso solo a fine causa, e solo in caso di vittoria.