Anche all'amministratore di fatto può essere contestato il reato di bancarotta, e anche se l'amministratore di fatto commette solo alcuni degli atti gestori, e non gli esercizi integrali dei poteri dell'organo amministrativo. A riaffermarlo è una recente pronuncia della Corte di Cassazione, che con la sentenza n. 51091/2015 si è pronunciata sul caso di un amministratore di fatto che aveva volontariamente alterato alcune scritture contabili. Al soggetto in questione era stata inflitta la condanna di bancarotta in appello, con successiva conferma in Cassazione. A nulla è valsa pertanto la posizione difensiva dei legali dell'amministratore di fatto, che ricordavano in sede di appello come il ruolo di amministratore di fatto avrebbe dovuto comportare lo svolgimento di tutti gli atti tipici di gestione in forma continuativa. Nella fattispecie, invece, la difesa sosteneva che l'amministratore aveva partecipato ad un singolo affare.
La valutazione in appello
In sede di appello, tuttavia, le indicazioni della difesa non vennero tenute in considerazione, con conseguente condanna del reato di bancarotta fraudolenta in capo a colui che è stato qualificato come amministratore di fatto. La Cassazione si è inserita sullo stesso filone interpretativo, precisando che se il concetto di amministratore di fatto presuppone effettivamente l'esercizio continuativo e significativo dei poteri tipici della sua funzione, ciò comunque non comporta che vengano necessariamente esercitati tutti i poteri dell'organo amministrativo, essendo sufficiente - per poter qualificare l'amministratore di fatto - anche il solo esercizio di un'apprezzabile attività gestoria, eventualmente svolta in modo non episodico o occasionale.
Il reato di bancarotta fraudolenta
Per quanto invece concerne il reato di bancarotta fraudolenta, inflitto all'amministratore di fatto, ricordiamo come al primo comma dell'art. 216 l.f. sia prevista la condanna con la reclusione da tre a dieci anni, se dichiarato fallito, l'imprenditore che "ha distratto, occultato, dissimulato, distrutto o dissipato in tutto o in parte i suoi beni ovvero, allo scopo di recare pregiudizio ai creditori, ha esposto o riconosciuto passività inesistenti"; o che "ha sottratto, distrutto o falsificato, in tutto o in parte, con lo scopo di procurare a sè o ad altri un ingiusto profitto o di recare pregiudizi ai creditori, i libri o le altre scritture contabili o li ha tenuti in guisa da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari". Il secondo comma dello stesso art. precisa inoltre che la stessa pena "si applica all'imprenditore, dichiarato fallito, che, durante la procedura fallimentare, commette alcuno dei fatti preveduti dal n. 1 del comma precedente ovvero sottrae, distrugge o falsifica i libri o le altre scritture contabili". La norma precisa infine che viene punito con la reclusione da uno a cinque anni l'imprenditore fallito che prima o durante la procedura fallimentare, allo scopo di favorire alcuni creditori a danno dell'intera classe dei creditori, esegue dei pagamenti o simula titoli di prelazione. "Salve le altre pene accessorie, di cui al capo III, titolo II, libro I del codice penale, la condanna per uno dei fatti previsti nel presente articolo importa per la durata di dieci anni l'inabilitazione all'esercizio di una impresa commerciale e l'incapacità per la stessa durata ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa" - conclude la norma.